Come si apprende dalla stampa francese, ad esempio il sito web de Le Figaro, la ristorazione francese si divide fra chi usa prodotti industriali nella cucina del ristorante e chi, invece, contrario a questa prassi, vuole “differenziare” i locali in cui tutto è preparato al momento.

La parola ristorante, spiegano i più estremisti, dovrebbe essere usata solo da chi non usa cibi preconfezionati.

Il dibattito ha portato all’idea di creare un’etichetta ad hoc per i piatti in cui non ci sono prodotti industriali, etichetta che a dirla tutta evoca più la massaia, che la ristorazione professionale, e dovrebbe far capire che ogni piatto è fatto dalla A alla Zeta dallo chef. L’etichetta di cui dicevamo porterebbe la dicitura “Fatto in casa”.

Parte dei ristoratori spingono a che questa dicitura diventi un obbligo, in modo da evidenziare in menu i vari piatti. Il ministro del Turismo francese spiega su Le figaro che «Questa etichetta  è una soluzione comprensibile per il consumatore e facilmente verificabile dai servizi competenti». Molti i commenti: "L`intenzione è buona, ma sarà molto difficile da attuare" osserva Christian Regouby, CEO di alcuni ristoranti di qualità.

Tuttavia, quest’etichetta è suscettibile di critiche. Facciamo l’esempio di un ristorante che ha in menu l’80% di piatti con prodotti freschi e il 20% con prodotti confezionati. Secondo molti non riuscirebbe a vendere quel 20% di prodotti in menu. C’è poi da riflettere sulla denominazione “fatto in casa” e “industrializzato”. Un piatto potrebbe essere preparato con l’80% di prodotti a Km 0 e un 20% di prodotto industriale. Meriterebbe l’etichetta?

Oggi la ristorazione si avvale di ottime soluzioni preparate industrialmente e di qualità. Basi, condimenti che si aggiungono in percentuale variabile ad un piatto, senza per questo “contaminarlo” e renderlo meno buono.

Certo, anche noi storciamo il naso quando leggimao il dato secondo cui un terzo dei ristoranti francesi non cucina, ma attenzione a non demonizzare l’industria alimentare.